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Home Italia Politica

L’Italia dopo Trump (2) – È RICHIESTO UN RESET DI SISTEMA

Giovanni Principe di Giovanni Principe
15 Dicembre 2020
in Politica
27 1
0
L’Italia dopo Trump (2) – È RICHIESTO UN RESET DI SISTEMA
Tempo di lettura stimato: 12 minutI

Il tema al centro del post precedente era la ricerca di una via di uscita dalla tenaglia sovranismo (Trumpismo)-liberismo, rimanendo ben distanti dai modelli che stanno prendendo piede nel resto del mondo, caratterizzati da pesanti limitazioni dei diritti fondamentali delle persone.

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Proposte alternative in grado di offrire una risposta efficace non emergono ancora: c’è bisogno per questo di una vigorosa ripresa dell’offerta politica a sinistra, intesa come alternativa socialista ed ecologista. Risposta che per ora è solo in cantiere, lungo due assi interagenti ma non convergenti: costruzione di nuova cultura e nuove aggregazioni all’interno delle formazioni storiche, fin qui colonizzate dalle teorie liberiste dominanti; ovvero, percorso fondativo di formazioni alternative, ancora in uno stadio embrionale, di estrema dispersione.

La situazione italiana, in questo quadro, è più arretrata: non si colgono atti concreti nella prima direzione e quanto alla seconda, la dispersione è ancora più accentuata che altrove: un magma confuso, pervaso di personalismi, che condanna all’inconcludenza. 

Su questo stato delle cose il discorso merita di essere approfondito.

#f2bf18; color: #000cf4;">Le ragioni profonde dell’involuzione della sinistra italiana vanno cercate nella perdita della memoria storica. La nostra è una società immersa in un eterno presente, quindi incapace di immaginare un futuro alternativo. Mentre, nel mondo, si assiste a un ritorno a Marx e a Gramsci

La situazione della sinistra italiana è grave soprattutto se la si giudica sul piano della elaborazione culturale. Qui, il confronto con il fermento che altrove anima la sinistra nelle sue varie articolazioni è particolarmente deprimente. Non solo non c’è traccia di una ricerca di nuovi paradigmi, ma si sta perdendo la memoria del nostro passato e manca un lavoro di ricostruzione delle radici teoriche, che nel resto del mondo (in tutti i continenti) va avanti, assumendo due punti di riferimento principali.

Il primo, in campo economico, è Karl Marx. Per chi analizza i fallimenti del liberismo sul piano della costruzione del sistema di relazioni sia tra gli umani che tra questi e la natura, è fondamentale definire una mappa concettuale che aiuti a darne una spiegazione, oltre che a disegnare rotte per il futuro. E quella fornita dall’analisi di Marx appare di nuovo la più convincente, e la più feconda, in quanto ha svelato la deformazione connaturata al meccanismo dell’accumulazione capitalistica. Giusto per rinfrescare la memoria, si tratta del concetto chiave su cui poggia “Il Capitale”, la rivoluzione nei rapporti sociali che si è determinata con il passaggio dal ciclo M-D-M (merce-denaro-merce) su cui si reggeva l’economia mercantile (il sistema di produzione di merci mediato dal denaro) a quello D-M-D su cui si regge il sistema capitalistico di mercato (l’accumulazione di ricchezza monetaria attraverso l’estrazione di pluslavoro, trasformato in plusvalore nel processo di produzione). Una rivoluzione che genera una dinamica dell’accumulazione di ricchezza che non ammette limiti, né nelle relazioni sociali né nel rapporto con l’ambiente da cui traiamo risorse vitali.

Partendo da Marx, l’attenzione è rivolta ai pensatori che dopo di lui, anche non “marxisti” secondo la definizione classica, hanno arricchito parti centrali della sua teoria (come Keynes, o Kaldor, per fare due nomi di richiamo). Tra questi, occupano un posto di rilievo anche alcuni economisti italiani, come Sraffa, amico di Gramsci, emigrato a Londra a sviluppare una teoria del plusvalore più ampia e più solida di quella di Marx. o come, nei primi decenni del dopoguerra, Caffè, Sylos-Labini e Napoleoni, tre “irregolari” estranei alla corrente dominante.

L’altro citatissimo punto di riferimento, in campo sociologico (nel significato politico che al termine dava lo stesso Marx), è un altro “grande italiano”, Antonio Gramsci. Il crollo del Muro, il dissolvimento repentino e incontrastato del sistema sovietico (il “socialismo reale”), ha costretto a fare i conti con le contraddizioni irrisolte delle teorie politiche alla base del comunismo della Terza Internazionale. Così, nella ricerca di un’alternativa all’ortodossia leninista, per chi non intendeva rinunciare al nesso con la teoria economica di Marx, ha riscosso un grande interesse l’elaborazione di Gramsci, abbozzata sin dall’Ordine Nuovo e approfondita poi negli anni del carcere. Concetti come quello di egemonia, o di rivoluzione passiva, hanno permesso di ipotizzare tragitti diversi, diversi rapporti tra politica e economia, diverse accezioni di democrazia e di potere, diverse soluzioni al problema della coerenza tra le fasi della transizione e il nuovo ordine politico, economico, sociale.

#cbed23; color: #2568ed;">La memoria è importante perché le particolarità della situazione italiana hanno origine nella nostra storia recente e nei condizionamenti delle libertà fondamentali che l’hanno caratterizzata. Su cui si è operata una rimozione.

Un intenso lavoro di ricostruzione è dunque in corso un po’ dappertutto, in particolare nel mondo anglosassone: se però si sfoglia la letteratura mondiale attuale, quei pochi nomi italiani che si si trovano sono per lo più attivi in altri paesi, mentre sono rari quelli residenti e attivi in Italia. È un fatto che merita una spiegazione e il senso di questa digressione sta proprio nel nesso profondo e stringente tra questa caduta di tensione intellettuale e l’eclisse della sinistra nel nostro paese.

Torno a richiamare Gramsci, perché da segretario del Partito Comunista ha dedicato molta della sua elaborazione culturale a una ricostruzione dei passaggi fondamentali della storia nazionale, considerandola indispensabile per comprendere le radici delle dinamiche in atto nella società in cui agiva. Mentre noi viviamo in una società che ha rimosso la storia, senza neanche una sinistra che ne abbia conservato la memoria: ma una società che vive in un eterno presente rimuovendo costantemente il passato (perfino quello più recente) non può avere alcuna visione del futuro che non sia la continuazione del presente, ossia la sua conservazione (consacrata dal dogma del TINA).

La crisi della democrazia che si registra nel mondo intero (uguaglianza dei diritti negata dalla crescita di diseguaglianze e discriminazioni, informazione condizionata da un potere privo di contrappesi) nel nostro paese assume un rilievo del tutto particolare. Ma facciamo fatica a cogliere con chiarezza quanto pesi, all’origine di queste particolarità, il portato di una storia recente in cui le libertà fondamentali dei cittadini sono state fortemente condizionate.

Siamo usciti dal mondo bipolare, quello della guerra fredda, salutando la fine della “democrazia dimezzata”, del fattore K, dell’impossibilità di un’alternativa e abbiamo rimosso il lato oscuro, l’inquinamento della vita pubblica che quella condizione portava con sé, le degenerazioni e le deformazioni che aveva introdotto. Nessun esame di coscienza collettivo, in profondità, ma un frettoloso voltare pagina che ha permesso al marcio di contaminare il nuovo riproducendosi. Non molto diverso da quanto avevamo vissuto nel passaggio dalla resistenza all’atlantismo. Stavolta, però, facendo tutto da soli o, comunque, aiutati ma non costretti. E tra le conseguenze principali, e più gravi, di questa rimozione c’è stato il venir meno della consapevolezza di come stava cambiando il rapporto dei cittadini con la politica.

#b5e5c2; color: #244be5;">Il solco che si è creato tra i cittadini e la politica sta generando dinamiche sempre più lontane dalla vita reale e dalle istanze preminenti della popolazione, che è in crescente difficoltà

Ci siamo accontentati di registrare che gran parte dei cittadini (ormai ben più della metà) si stavano allontanando dalla politica e abbiamo lasciato che chi, stando al potere, aveva interesse a farlo, decretasse la loro messa al bando (preludio di una negazione dei diritti politici) spacciando l’istanza di cambiamento che esprimevano per un rifiuto della politica. Senza accorgerci che già da tempo la politica si era allontanata dai cittadini, nel senso che aveva abbandonato a sé stessa la parte che senza le risorse comuni non aveva i mezzi per garantirsi l’esistenza degna cui aveva diritto.

In questa rimozione collettiva diventa perfino difficile stupirsi difronte a dinamiche politiche che non rispondono a logiche spiegabili, spesso perché indicibili, e a eventi la cui assurdità finiamo per non vedere. Può bastare come esempio il fatto che ci ritroviamo – senza aver dato peso eccessivo alla cosa – con un governo frutto di una doppia eterogenesi dei fini.

Prima, un governo che, essendo nato da una manovra orchestrata per impedire qualunque soluzione diversa dalla grande ammucchiata al centro in nome del TINA, vedeva invece in posizione determinante il leader della forza più estremista e più eversiva dell’arco parlamentare, forte di poco più di un quinto dei parlamentari.

Poi, collassato quel governo dopo neanche un anno di vita per un colpo da gradasso di quel leader improbabile e impresentabile che ambiva a vedersi concedere “pieni poteri”, si arriva a quello attuale. Che nasce da una seconda manovra ordita con l’intento di scongiurare il ricorso al voto mettendo in piedi una coalizione ricattabile e in fragile equilibrio, affidata a un Presidente del Consiglio privo di credenziali politiche solide e perciò ancora più condizionabile. E invece guadagna consensi inaspettati nel Paese, in particolare tra i cittadini più lontani dalla politica degli ultimi anni, grazie a una serie di circostanze, interne e internazionali, in cui un evento naturale che sfuggiva al controllo della politica dominante, come la pandemia da Covid19, ha avuto un peso decisivo.

Chi è stato al centro di entrambe le manovre (avendole ordite in proprio o per conto terzi non è dato saperlo) è sempre lì e ne sta tentando una terza. Il cartone animato di “Beep-beep-e-Willy-coyote” è forse la rappresentazione più fedele, almeno nel lato comico, di queste trame ripetute e del loro naufragio. Ma fino a quando? A che prezzo?

Giungiamo così all’attualità e alle incognite che porta con sé, con le difficoltà di comprensione indotte da un discorso pubblico inquinato e deformato, in una situazione come quella descritta, di rimozione delle radici storiche e della memoria del passato, anche recente.

#d9cce2; color: #0945ea;">È necessario dunque analizzare più a fondo ciò che rappresenta questo governo, nato dalla casualità più che da sequenze rispondenti alla logica dei fatti politici, e quali prospettive può avere. E andare al cuore (di tenebra) del problema cercando di far luce nel buio che regna nel mondo dei partiti.

Agli occhi di chi conserva un attaccamento ai postulati classici del sentire di sinistra, senza altri aggettivi, questo governo ha qualche merito fondamentale. Ne elenco quattro:

– aver salvaguardato il reddito di cittadinanza e aver mostrato perfino l’intento di procedere ad alcuni indispensabili miglioramenti dato che, essendo frutto di un compromesso in un Parlamento dalla composizione tra le più di destra nella storia repubblicana, è stato varato con limiti all’accesso irragionevoli e senza alcuna interventi sul sistema di politiche pubbliche per l’occupazione (tra i più inefficienti al mondo) a dispetto di una inaspettata dotazione finanziaria;

– aver tenuto fermo il rifiuto di accedere alle linee di prestito escogitate da una UE nel pieno del delirio neoliberista dell’austerità pro domo tedesca (per punire, e sfruttare, i paesi in difficoltà) come il MES, e aver giocato una partita un po’ più ambiziosa con la BCE e con la Commissione;

– aver tenuto fuori dal circuito della spesa pubblica (almeno quella statale, poco potendo per quella decentrata dalle Regioni in giù) il gigantesco coagulo di interessi che, dopo aver drenato negli ultimi venti anni migliaia di miliardi dalle casse dello Stato, annusava la ghiotta occasione di un’emergenza planetaria che richiedeva procedure eccezionali per quantità di risorse altrettanto eccezionali;

– aver finalmente relegato nel pattume della storia il dogma alla base delle privatizzazioni (il privato è più efficiente dello stato) riaprendo una serie di dossier, impantanati nella gestione di governi compiacenti verso i privati rapinatori di risorse pubbliche, senza ancora giungere a chiuderli ma quanto meno reimpostandoli su altre basi, che vedono il pubblico in un ruolo determinante.

Non è poco. Eppure, non si sfugge al quadro di desolazione da cui è partito questo ragionamento. Perché questo governo, non rispondendo alla logica (deforme) della politica nostrana, è sempre in bilico. Abusivo, effettivamente, perché l’eterogenesi è uno stravolgimento dei fini che, per quanto siano inaccettabili e insostenibili per il nostro paese, sono perseguiti da forze potenti, poco disposte a rassegnarsi senza combattere. E la chiave del problema è tutta nel buio pesto che regna nel mondo dei partiti.

#ddc3c3; color: #2c25ed;">Una prima conclusione è che in questa situazione si arriva, al più, alla riduzione del danno, mentre è richiesta una rottura di continuità, almeno sulle sfide prioritarie, fondamentali. Sanità, ambiente, risorse (lavoro e fisco).

Arriviamo a una prima conclusione prendendo di petto questo punto dolente. Lasciando da parte ItaliaViva, che presidia il governo in missione per conto terzi in territorio nemico, guardiamo prima di tutto al PD e confrontiamo le sue posizioni con i quattro titoli di merito attribuiti a questo governo in un’ottica di sinistra (molto “basica”). È facile accorgersi che non ce n’è uno che non sia in contrasto con l’armamentario programmatico che si è dato da molti anni a questa parte (ben prima della gestione Renzi). Vale per il reddito di cittadinanza, per il MES (sanità), per le privatizzazioni, ma (lo stiamo vedendo ora) perfino di più per l’ultimo punto. Perché le strutture commissariali, al centro delle polemiche, sono un errore, sì, ma proprio in quanto sono una concessione alle logiche care a Renzi (sono un suo pallino) e al PD, oltre che alla destra dai tempi di Berlusconi, in quanto terminale ideale per lobby affaristiche (palesi o occulte). Non è dunque la loro costituzione che suscita tanta avversione quanto il solo sospetto che possano essere tenute lontane dagli interessi lobbistici (come gettare un tesoro alle ortiche…).

Ma almeno ci sono i Cinquestelle che su quei punti hanno tenuto, si sente dire. Certo, non hanno tutti i torti: purtroppo, non sono però in nessun modo la soluzione al problema. Non tanto perché sono deboli, avendo perso metà dei consensi, ma per le ragioni per cui li hanno persi. Che sono tutte riconducibili alla mancanza di un retroterra politico e culturale chiaro e solido: l’eclettismo e l’agnosticismo ideologico a cui continuano ad appellarsi, se non sfociano nel centrismo (che resta anche il limite storico dei Verdi) nel migliore dei casi limitano la loro azione alla riduzione del danno. Se torniamo a esaminare l’elenco precedente, i quattro punti sono accomunati dall’essere tutti una difesa dell’esistente. Non che la difesa non sia importante, se preserva quelle che Gramsci (altra citazione) definiva “casematte”. Ma ora il problema non è tener duro su quello che c’è, ma riuscire a innescare discontinuità forti per le quali non si può più temporeggiare in attesa di tempi migliori.

Dobbiamo esserne convinti ed essere convincenti, credibili per trovare nuovo ascolto, nuovi consensi e nuove energie, di partecipazione e mobilitazione. Partendo dal Manifesto per la Società della cura, a cui rinvio di nuovo, propongo una ulteriore sintesi delle sfide che abbiamo difronte.

Non si può che partire dalla sanità, su cui si deve tornare a investire (45 miliardi nei prossimi 5 anni, non 9 come si sta prospettando) per rivoluzionarne l’assetto e gli indirizzi di fondo: centralità del pubblico, della prevenzione, del territorio, ma anche assunzione di responsabilità dello stato, che la Costituzione chiama a determinare “i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”, nonché “i principi fondamentali”.

C’è poi l’emergenza ambientale su cui il cambio di rotta deve essere radicale: la prova del nove si ha con l’abrogazione dei sussidi ambientalmente dannosi, l’imposizione di tasse sulle emissioni di gas climalteranti e sulla plastica monouso, il blocco delle opere – grandi e piccole – dannose per l’ambiente, il clima e la salute.

Dobbiamo infine aver chiaro che la grande mole di risorse che siamo chiamati a investire in tempi molto brevi è una scommessa sul futuro ma anche un prelievo che rischia di ipotecarlo e di pesare sulle nuove generazioni. Significa doversi muovere lungo tre assi fondamentali:

– una massiccia creazione di nuova occupazione (di ogni euro speso deve essere evidenziata la ricaduta occupazionale), accompagnata dalla rimozione dei limiti attuali del reddito di cittadinanza;

– un contrasto rigoroso ad ogni forma di speculazione sottraendo con ogni mezzo gli investimenti alla logica del massimo profitto (estensione dell’area dei beni comuni, controllo rigoroso dell’impiego delle risorse), a partire dalla imminente campagna vaccinale;

– una modifica profonda del prelievo fiscale ispirata a un deciso ritorno alla progressività e alla tassazione dei grandi patrimoni e delle successioni di maggiore entità, sostenuta da un’iniziativa sul piano internazionale, insieme alle forze politiche europee più in sintonia su questi temi, data la loro dimensione che travalica ampiamente l’ambito nazionale.

#bad2f2; color: #0166bf;">Nell’urgenza dei problemi, con un quadro politico inadeguato, non si può che puntare ad esercitare pressione su chi decide. Ma la seconda conclusione da trarre è che occorre compiere il massimo sforzo per ridurre la distanza tra cittadini e politica. Partendo dalla selezione dei rappresentanti, quindi dalla legge elettorale, su cui si fa di tutto per allontanare l’attenzione dei cittadini.

Se poniamo a confronto le sfide che dobbiamo affrontare con il quadro offerto dalla dialettica parlamentare e con la mancanza di solide basi politiche per l’attività di governo, non possiamo che puntare, come unico terreno di iniziativa, su una mobilitazione per esercitare pressione direttamente sul governo, come ci stiamo orientando a fare: ma con un rischio inevitabile di corporativizzazione e con un’esaltazione dell’eclettismo. Sapendo dunque che non basta per realizzare la discontinuità di cui abbiamo bisogno, che deve avere alle spalle un indirizzo forte e univoco.

Arriviamo così alla seconda, più spinosa, conclusione. Non è rinviabile una radicale inversione di rotta sul terreno del rapporto tra cittadini e politica. Si dovrebbe dare attuazione all’articolo 49 della Costituzione restituendo infine ai cittadini il potere di “concorrere a determinare la politica nazionale” attraverso i partiti (ora sottratti a qualunque controllo democratico): ma sono richiesti tempi molto più stretti. Il primo passo, la cui urgenza è dettata dalla situazione che si è creata, deve essere l’introduzione di una legge elettorale che sottragga ai partiti il potere di condizionare, entro un solco preordinato dai loro apparati burocratici, la scelta dei rappresentanti da parte degli elettori.

Su questo terreno l’iniziativa latita, appare paralizzata (anche se subirà una inevitabile accelerazione all’approssimarsi della fine della legislatura). Quel che più preoccupa, al di là di questo, è la neghittosa indifferenza con cui la questione è vissuta dai cittadini, ormai mitridatizzati. A questo bisogna reagire. Anche perché l’unica proposta in campo, pur lontana dal raccogliere i consensi necessari, è la perpetuazione sotto mentite spoglie del sistema elettorale attuale, la cui deformità è apparsa chiara alla prova dei fatti, e ulteriormente accentuata dalla riduzione dei parlamentari.

Stupisce dover motivare questo giudizio e sembra quasi di offendere l’intelligenza dei lettori, eppure ben poche voci si levano a mostrare che il re è nudo. Dovrebbe tuttavia essere evidente: limitare i collegi ai soli “plurinominali” abolendo gli uninominali; confermare le pluricandidature e il no alle preferenze; in più, innalzare la soglia dal 3% al 5%. Così facendo, non solo non cambia l’effetto maggioritario ma lo si amplia e si accentua la stretta sul cosiddetto diritto di tribuna per le formazioni minori. Quindi, si va in direzione esattamente opposta a quella invocata dai fautori del sistema proporzionale.

Aggiungiamo pure che limitare la correzione al solo abbassamento della soglia (al 4%? al 3%?) non cambierebbe la sostanza: solo, lascerebbe anche a qualche mini-apparato la possibilità di tentare l’avventura. E che collegare l’abbassamento della soglia a un’eventuale riesumazione delle coalizioni ci riporterebbe esattamente al Rosatellum, se non a un meccanismo ancora più condizionato dagli apparati. Con il risultato scontato (almeno fino a bocciatura della Consulta, “a babbo morto”) di un ulteriore calo, sicuramente sotto il 50%, della partecipazione al voto.

#ef0745; color: #ffffff;">Come cambiare?

Riprendiamo allora in mano l’iniziativa su questo tema decisivo, senza rassegnarci all’esproprio dei dritti politici della cittadinanza. Senza fingere di avere una bacchetta magica, parliamo di qualcosa che molti degli elettori(dai 30-35 anni in su) possono comprendere perfettamente. Parliamo del Mattarellum, nome che ai più giovani può comunque suonare familiare.

Con una quota proporzionale del 25% alla Camera si garantirebbe un diritto di tribuna perfino a formazioni al disotto dell’1% (garantendo un deputato su 400, ma la tribuna è questo e non altro). E ci si potrebbe spingere oltre con appena qualche ritocco: per dire, abolire lo scorporo del proporzionale e introdurre (udite! udite!) un doppio turno nei collegi dove nessuno/a ottenga il 50% al primo turno, ammettendo magari, alla francese, chi abbia superato una soglia (ad esempio, tra il 15% e il 25%).

Semplice, lineare, comprensibile e tale da restituire ai cittadini un potere di scelta oggi negato. Le obiezioni, oltre che attese, sarebbero benvenute, se questi spunti potessero servire a riportare l’attenzione sul tema. Che rappresenta un passaggio ineludibile per tornare a credere nella politica, e ha il valore di una scelta decisiva, davanti a un bivio fondamentale per il futuro del nostro paese.

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